Il cannibale della porta accanto
Milwaukee, stato del Wisconsin,
USA, notte del 22 luglio 1991. Due agenti che stanno facendo
la ronda in uno dei quartieri più degradati della città
vengono avvicinati dal trentaduenne Tracy Edwards che, in preda
all’agitazione, racconta di essere riuscito a sfuggire,
per miracolo, a un pazzo che aveva tentato di ammanettarlo.
Al polso sinistro di Edwards penzola in effetti un paio di manette.
Sebbene inizialmente scettici, i poliziotti finiscono per accompagnare
l’uomo in un appartamento, poco distante, dove si è
svolto l’accaduto. Chi apre loro la porta è un
trentenne alto e biondo, dai modi garbati. Dice di chiamarsi
Jeffrey Dahmer, e non solleva obiezioni quando uno dei due agenti
gli chiede di andare a prendere la chiave per togliere le manette
dal polso di Edwards. Ma quando, insospettito, il poliziotto
segue Dahmer all’interno della stanza, quello che scoprirà
inorridito diventerà l’incubo di un’intera
città e farà il giro dei media del mondo intero,
dando inizio alle indagini su una delle più agghiaccianti
serie di delitti mai venuti alla luce. Gettate alla rinfusa
nel cassetto di un comò ci sono infatti Polaroid di giovani
maschi ripresi mentre vengono squartati. In grossi bidoni pieni
di acido verranno in seguito rinvenuti corpi parzialmente liquefatti,
tre teste mozzate in contenitori riempiti di spirito, altre
tre nel frigorifero, assieme a pezzi di carne umana e genitali
maschili conservati nella formalina, nonché altri recipienti
con ossa e viscere in decomposizione. Appeso nel guardaroba,
orrido tocco finale, si dondola uno scheletro intero. Anche
se per breve tempo tenterà di negare il suo coinvolgimento
con i macabri rinvenimenti, Dahmer confesserà presto
i suoi crimini: diciassette omicidi, compiuti tra il 1978 e
il 1991. La sua prima vittima? Steven Hicks, 19 anni, un autostoppista
raccolto da Jeffrey, all’epoca diciottenne, nei dintorni
di Milwaukee. Dopo avere fatto sesso con lui, Dahmer lo tramortisce
con una botta in testa, lo strangola, ne fa a pezzi il corpo
e lo seppellisce nel giardino della nonna in diverse buste di
plastica. Ma chi è Dahmer? Proviamo a scoprirlo. |
Jeffrey
Lionel Dahmer nasce a Milwaukee il 21 maggio 1960 alle 16.34. Il padre,
Lionel, è un ricercatore chimico, la madre, Joyce, una casalinga
con gravi problemi di depressione, che si imbottisce di psicofarmaci.
Da Milwaukee i Dahmer si trasferiranno ad Akron, nell’Ohio e
in seguito nel campus dell’Università di Ames, nello
Iowa, dove Lionel ha trovato un posto come assistente. Ma il matrimonio
dei genitori di Jeffrey è minato dalle incomprensioni, e dopo
la nascita del secondogenito, David, i Dahmer divorziano. La madre
se ne va con il figlio minore, il padre trova una nuova compagna.
Dopo la cattura del figlio, Lionel Dahmer scriverà un libro
(Mio figlio, l’assassino, Sperling & Kupfer, 1994)
che è la testimonianza sofferta di un genitore vissuto per
anni accanto al suo primogenito senza rendersi conto che certe stranezze
nel comportamento del ragazzo, la sua fuga nell’alcol iniziata
già al liceo, la sua incapacità di trovare un lavoro
serio, nonché la grande timidezza e asocialità, erano
il segnale di un gravissimo disturbo della personalità. Dopo
due anni di arruolamento nell’esercito degli Stati Uniti, dal
1979 al 1981, Jeffrey viene congedato, probabilmente per problemi
legati all’alcolismo. Il padre lo convince allora a trasferirsi
in casa della nonna paterna, che vive a West Allis, un sobborgo di
Milwaukee. La vecchia signora adora il nipote, e lui pure le è
molto affezionato. Jeffrey trova un lavoro, tutto sembra andare per
il meglio. Ma con il tempo la convivenza si guasta. La scoperta di
un manichino maschile nell’armadio di Jeffrey mette in allarme
nonna Dahmer, come pure quella di una pistola sotto il letto di Jeffrey.
Inoltre la insospettiscono le sempre più frequenti, lunghe
assenze da casa del nipote, e l’odore nauseabondo che fuoriesce
dal garage. Il fetore atroce ha una giustificazione, ovviamente: qui
Dahmer ha smembrato e sepolto tre delle sue vittime. Ma lui ha una
giustificazione per tutto, e in occasione di una visita del padre
confessa che gli piacciono gli esperimenti fatti su carcasse di animali
con varie sostanze chimiche. A fine settembre 1988, Jeffrey lascia
la casa della nonna e va a vivere per conto suo, in un appartamento
sulla Ventiquattresima strada Nord di Milwaukee. Poco tempo dopo la
polizia lo arresta per molestie sessuali a un minorenne coreano, che
è riuscito a sfuggire dalla tana del “mostro” dopo
essere stato drogato. Il padre e la nonna danno i 2000 dollari per
la sua cauzione, e Jeffrey viene liberato. Chiede scusa, giura che
le sue intenzioni non erano cattive, lui voleva semplicemente fotografare
il ragazzo nudo, pensava che fosse maggiorenne. Il 23 maggio 1989
il giudice condanna Jeffrey Dahmer a cinque anni con la condizionale,
imponendogli di scontare un anno di pena lavorando nella casa di correzione
della contea di Milwaukee. Lionel Dahmer e la sua compagna, Shari
Jordan, lo rivedranno durante la festa del Ringraziamento del 1990.
Vengono accolti in un appartamento lustro e ordinato: nella cucina,
pulitissima, spicca un nuovo acquisto, un freezer. Ed è proprio
nel giugno del 1990 che inizia l’escalation degli omicidi. Dopo
Edward Smith tocca a Raymond Smith, David Thomas, Ernest Miller. Nel
febbraio del 1991, Jeffrey Dahmer massacra Curtis Straughter, in aprile
Errol Lindsey e in maggio Anthony Hughes. Nella notte del 27 maggio
1991 accade poi un fatto davvero inquietante. Un ragazzino laotiano
quattordicenne, Konerak Sinthasomphone, fugge ammanettato dalla casa
di Dahmer, e si imbatte in una pattuglia di polizia. Chiede soccorso,
ma arriva subito Jeffrey, che convince gli agenti che si è
trattato solo di una lite tra amanti gay. I poliziotti, che non ne
vogliono sapere di questioni omosessuali, riconsegnano il ragazzino
all’assassino, che subito dopo lo massacrerà, e prosegue
poi imperterrito nella sua macabra catena di omicidi In giugno tocca
così a Matt Turner, in luglio a Jeremiah Weinberg, Oliver Lacy
e Joseph Bradehoft. Bradehoft è l’ultima vittima, perché
come già detto, Tracy Edward riuscirà a liberarsi portando
così la polizia alla scoperta dei delitti del “mostro”.
Il 23 luglio 1991, Lionel Dahmer chiama, verso le nove della mattina,
suo figlio, per avere notizie. A rispondere non è lui ma un
poliziotto. Jeffrey è già stato portato via, dopo la
scoperta degli orrendi reperti. Il processo di Jeff inizia il 30 gennaio
1992. Ed è nel corso di questo che verrà fuori un’altra
orribile verità: oltre ad avere fatto a pezzi i giovani da
lui uccisi, Jeffrey Dahmer si è cibato delle loro carni, tenendo
come ricordo le parti del corpo che non sono finite in padella. I
vicini di casa avevano più volte lamentato, alle autorità,
gli sgradevoli odori provenienti dall’appartamento di Dahmer,
prodotti, come si scoprirà in seguito, dai grossi bidoni pieni
di acido contenenti resti umani, ma nessuno aveva ritenuto all’epoca
di dover intervenire. L’età delle vittime del “mostro”,
tutte di colore tranne un asiatico e un ispanico, va dai 14 ai 33
anni. Dahmer le trovava nei bar per gay, alle fermate degli autobus,
nei bagni pubblici, nei negozi di materiale pornografico. Giovani
di modesta condizione sociale, attratti dall’offerta di denaro,
al massimo una cinquantina di dollari, in cambio di quello che credevano
un semplice rapporto omosessuale. Ma una volta attirati nella tana
di Dahmer, iniziava il loro calvario. Dopo il sesso, venivano stordite
con vari tipi di droghe sciolte nell’alcol, e la mattanza iniziava.
Durante il processo Jeffrey manterrà un atteggiamento passivo
e distaccato, ma per tenere a bada la comprensibile furia dei parenti
delle povere vittime, accorsi in massa nell’aula del Tribunale,
le forze dell’ordine saranno costrette ad adottare misure di
sicurezza straordinarie. Jeffrey parlerà una sola volta, poco
prima che la giuria si riunisca per la sentenza. “Vostro Onore,
è finita. Non ho mai cercato di essere liberato. Francamente
volevo la morte per me stesso. Voglio dire al mondo che non l’ho
fatto per odio. Non ho mai odiato nessuno. Sapevo di essere malato,
cattivo o entrambe le cose. Adesso credo d’essere veramente
malato. Il dottore mi ha parlato della mia malattia e di quanto male
ho causato. Ho fatto del mio meglio per fare ammenda dopo il mio arresto,
ma non importa, non posso eliminare così il terribile male
che ho causato. Vi ringrazio, Vostro Onore, sono pronto per la vostra
sentenza, che sono sicuro sarà il massimo. Non chiedo attenuanti,
ma per piacere dite al mondo che mi dispiace per quello che ho fatto”.
Condannato a 15 ergastoli, dal momento che nello stato del Wisconsin
non vige la pena capitale, Jeffrey Dahmer verrà ucciso in prigione
nel novembre del 1994 da Christopher Scarver, uno psicopatico in carcere
per avere ucciso la moglie. Scarver gli fracasserà il cranio
perché convinto che Dio in persona avesse assegnato a lui il
compito di fare giustizia.
Giuliana Giani
giuliana.giani@fastwebnet.it
Nessun antropologo o studioso dell’antichità potrà
mai affermare con certezza se, agli albori della civiltà umana,
la “creatura” uomo era di norma cannibale oppure se questa
sanguinosa abitudine era circoscritta solo ad alcune popolazioni più
violente e immorali di altre. Il cannibalismo è ormai praticamente
estinto anche se si dice che in alcune aree remote del sud-est asiatico
e dell’Africa Nera esistano ancora piccole tribù che
si cibano di carne di propri simili, di solito quella dei nemici caduti
in battaglia o vittime di un’imboscata. Destò scalpore
e repulsione, alcuni decenni or sono, la tragica vicenda degli scampati
a un disastro aereo sulla cordigliera delle Ande che, per sopravvivere
in attesa di ipotetici soccorsi – che per loro fortuna arrivarono,
anche se dopo molti giorni – si nutrirono della carne dei loro
compagni morti. Come pure ancora un brivido ci corre lungo la schiena
leggendo nella Divina Commedia l’immane tragedia del Conte Ugolino
che “la bocca sollevò dal fiero pasto”. Tutti ricorderanno
che, per cercare di sopravvivere alla morte per inedia, il nobile
toscano si era nientemeno che nutrito della carne dei suoi figlioli.
Il cibarsi di propri simili è dalla notte dei tempi uno dei
tabù più radicati per l’uomo. Se poi al cannibalismo
si associano necrofilia e desideri sessuali immondi, ben difficilmente
riusciamo a capire cosa determini questa mostruosità. Tanto
che quando il mostro di Milwaukee venne ucciso in carcere alcuni scienziati
chiesero di esaminare il suo cervello, come, alla fine della Seconda
Guerra Mondiale, venne vivisezionato da studiosi americani il cervello
di un mostro di tutt’altra natura, Adolph Hitler. Ma il padre
di Jeffrey Dahmer, per motivi religiosi, negò il permesso di
studiare il cervello del figlio, quel figlio che gli psichiatri avevano
dichiarato sano di mente, nonostante gli innominabili delitti commessi.
Così non sapremo mai se la sua mente era davvero diversa dagli
altri oppure – come sembrava – era uno di noi.
Gemelli ascendente Bilancia, come il più noto pedofilo italiano,
Luigi Chiatti, come questi si presentava come una persona educata
e dall’aspetto irreprensibile. Certo era gay e aveva un passato
da alcolista, ma in una città moderna come Milwaukee l’omosessualità
non rappresenta più motivo di scandalo. Il vizio della bottiglia
poi è comune a milioni e milioni di americani. Come pure milioni
di persone soffrono – come era toccato a lui – per il
divorzio dei genitori, e non hanno in essi un sostegno psicologico
sufficiente nel corso di infanzia e adolescenza. Anzi, trovano nei
genitori proprio i primi che minano la loro stabilità emotiva
e mentale. Cosa trasforma allora un essere umano problematico come
milioni di altri in un mostro come Jeffrey Dahmer? Neppure l’astrologia
è in grado di dare una risposta certa a queste domande. Può
sì rilevare che si trattava di una persona inquieta (Nettuno
in Scorpione in prima casa), insopportabilmente insoddisfatta e con
vaste zone oscure, oscure forse anche a lui stesso (Plutone in undicesima
casa che quadra il Sole e Mercurio in Gemelli) e che tendeva a nascondersi
e a non rivelare i suoi sentimenti più profondi (Venere, Sole
e Mercurio in ottava casa). Ma nessun segno di follia, di anomalia
genetica, di tara ereditaria. Marte in Ariete e sesta casa, in sestile
a Mercurio e in quadrato a Giove, ci indica che le sue preferenze
sessuali si indirizzano verso i maschi giovani, e una preferenza per
il sesso orale. Non vogliamo ripeterci, ma milioni di altre persone
hanno questa propensione sessuale, ma solo uno su un miliardo arriva
al cannibalismo. La Luna e Marte in Ariete indicano inoltre una certa
diffidenza nei confronti del prossimo, visti come potenziali rivali
o nemici. Anche Venere in Toro suggerisce una tendenza all’oralità,
e il quadrato che il pianeta riceve da Urano indica che questa tendenza
può essere distorta, oltre che esercitata in luoghi appartati,
dove essere se stessi lontano da occhi indiscreti. Il Sole in ottava
inoltre può dare forti pensieri di morte, la propria o quella
altrui. Urano in Leone e decima casa e Saturno in Capricorno in terza
casa indicano poi come Dahmer avesse bisogno di dominare, anche in
campo affettivo. Ma ancora non abbiamo trovato l’elemento che
determina il mostro, né lo troveremo mai. Proviamo allora a
vedere quali transiti planetari scatenarono i suoi delitti. Al momento
dei primi omicidi, nell’autunno 1987, Nettuno quadrava il suo
Marte, facendolo indirizzare verso una sessualità violenta.
Sembra quasi che l’amante di una notte sia nella mente distorta
di Dahmer anche un nemico da eliminare. Come se in lui rimbombasse
un pensiero ossessivo, “mors tua, vita mea”. Ma i ragazzi
che di volta in volta uccideva non sarebbero stati suoi nemici, volevano
solo passare una serata di sesso. Nel 1987 al tempo stesso però
Saturno di transito in Sagittario, in trigono alla sua Luna in Ariete
e al suo Urano in Leone, gli dava lucidità emotiva e capacità
di agire con freddezza. Sembra quindi che certe inibizioni interiori
cadano e che Dahmer potesse infine concedersi quello che aveva sempre
desiderato, ma non aveva mai osato mettere in atto. Nel 1988 e nel
1989 però si trattiene, concedendosi “solo” un
omicidio all’anno. Nell’estate del 1990 le pulsioni aumentano
e quattro altri ragazzi di colore finiscono smembrati nel suo appartamento.
Poi una pausa invernale, fino all’aprile 1991, e qui la pulsione
omicida sfrenata si scatena: 7 omicidi in 3 mesi. Ormai Jeffrey non
sa più fermarsi: desidera troppo il sangue di nuove vittime.
Nel momento della cattura, paradossalmente transiti planetari positivi
e transiti negativi si bilanciano, quasi come se le stelle volessero
dire che una momentanea distrazione del mostro di Milwaukee gli concedesse
infine di liberarsi della sua ossessione necrofila e omicida. Transiti
davvero negativi arrivarono dopo, durante la breve reclusione prima
che venisse ucciso. In carcere probabilmente si rese davvero conto
che i suoi desideri lo avevano precipitato solo in un abisso di solitudine
che nessun esperto della psiche umana poteva curare.
La sentenza del tribunale astrologico
Frustrato, paranoico e infelice, era però pienamente capace
di intendere e di volere al momento dei crimini. Ammazzare gli piaceva
e aveva un fortissimo senso della morte ed è possibile che,
nella sua mentalità distorta, abbia cercato di esorcizzare
questa paura uccidendo – realmente, non per metafora –
ciò che più desiderava, giovani maschi gay, possibilmente
di colore. Nessuno sa se esista davvero un aldilà, e in tale
caso che fine abbia fatto dopo la sua morte Dahmer. L’inferno,
però, l’aveva già sperimentato in vita. E l’aveva
fatto assaporare con tutto il suo dolore anche alle sue vittime, prima
di ucciderle.
Massimo Michelini
Questo articolo è già stato pubblicato
sul numero 4 di M-Rivista del mistero nell’ottobre
2007.
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